Nacque nel 1841 a Montevarchi, figlio di un medico condotto con ambizioni letterarie, che aveva al suo attivo una traduzione del De medicina di Celso. Studiò giurisprudenza a Siena e a Pisa, arrivando nel 1860 alla laurea. Cimentatosi precocemente, e non senza critiche, nella poesia, entrò in contatto con Giosuè Carducci, con cui si legò in una lunga amicizia che lasciò su di lui tracce profonde. Negli anni Sessanta, oltre a dare inizio a una nutrita serie di lavori di carattere didattico e divulgativo, inaugurò una proficua collaborazione con l’«Archivio storico italiano» di Giovan Pietro Vieusseux e insegnò materie letterarie nel licei di Faenza, Casale Monferrato, Siena, Pistoia, e in ultimo Firenze.
Dovette lasciare l’insegnamento quando, divenuto accademico della Crusca, si votò interamente alla redazione della quinta edizione del Vocabolario. Funzionale alla purezza della lingua italiana, che in quel momento assumeva particolare rilievo come strumento unificatore della neonata nazione, lo studio dei testi, con particolare attenzione alla letteratura medievale e umanistica, si concretizzò in numerose edizioni, dal Poliziano a Donato Velluti, a Lorenzo il Magnifico, fino all’edizione critica della Cronica di Dino Compagni, esempio lampante di quel metodo storico che vedeva nel rigore filologico della ricostruzione di un testo, nell’apparato documentario e nell’imponente quantità di informazioni storico-biografiche a corredo, il principale baluardo contro l’arbitrarietà e la vacuità della storiografia priva di fondamenti. Gli stessi principi metodologici avrebbero ispirato i numerosi studi e scritti d’occasione su Dante e il suo tempo, e soprattutto il suo commento alla Divina Commedia pubblicato da Le Monnier negli anni Venti del Novecento.
Accomunato da un’analoga visione della storiografia e dei metodi d’indagine, nonché allettato dalla messe linguistica che le opere di Galileo avrebbero fornito al Vocabolario della Crusca, fu lui a proporne ad Antonio Favaro l’edizione nazionale, mettendo a disposizione le proprie basi filologiche a integrazione delle competenze matematiche di quello che sarebbe divenuto uno fra gli amici più stretti. L’impresa non fu di poco conto, sia per la mole del lavoro, sia per la posizione in cui il Del Lungo venne a trovarsi, schiacciato fra le pretese di rigore dei filologi più intransigenti e le volontà semplificatorie degli scienziati. Meditato l’abbandono, portò avanti il lavoro solo per l’intervento mediatore di Antonio Favaro. Arciconsolo (poi presidente) della Crusca dal 1914, fu lui a decretarne lo spostamento da San Marco a palazzo Medici Riccardi. Fu socio della Società dantesca italiana, presidente della Deputazione di storia patria e accademico linceo.
Dal 1906 fu anche senatore del Regno, con posizioni interventiste in occasione del primo conflitto mondiale e fermamente contrarie alla ratifica del trattato di Rapallo fra Italia e Iugoslavia, nel rivendicare all’Italia la Dalmazia e Fiume. Morì a Firenze nel 1927.
Commemorando Antonio Favaro a poche settimane dalla morte in un’adunanza lincea, Isidoro del Lungo ricordava i frutti di tanti anni di amicizia e di stretta collaborazione, lamentando l’esigua tiratura dei venti volumi delle opere di Galileo, a quel punto ormai introvabili, e promuovendone un’edizione divulgativa, sogno irrealizzato dell’amico scomparso. L’iniziativa, grazie alla quale si sarebbe potuto dire che «verso il supremo oggetto delle sue nobili fatiche Antonio Favaro» continuasse «anche di là dalla tomba l’opera sua coscienziosa, fattiva e sapiente», non ebbe tuttavia alcun seguito.