Nacque nel 1813 a Malcesine sulla riva veronese del lago di Garda, discendente di una famiglia di legisti. Il padre, pur dottore in legge a Bologna come da tradizione familiare, aveva ben altre ambizioni e, scritturata una compagnia di comici, lasciò moglie e figlio dopo aver loro svuotato la casa e le tasche. La madre, quindi, dovette occuparsi da sola di educare e mantenere il bambino, che frequentò le scuole elementari del paese e in seguito il ginnasio di San Sebastiano e il liceo a Verona, dove nelle discipline umanistiche come in quelle scientifiche fu seguito da valenti insegnanti, fra i quali Giacinto Toblini per la matematica e l’abate Giuseppe Zamboni per la fisica. Fuori dalle aule frequentava il circolo del linguista Antonio Cesari, «padre delle toscane eleganze», cui si sentì sempre debitore per quanto da lui appreso riguardo allo scrivere in italiano.
I legami di parentela col Toblini, matematico e ingegnere con cui il Turazza condivideva le estati a Malcesine, non lo lasciavano senza guida neppure nei periodi di vacanza. Nonostante le misere condizioni economiche, nel 1831 si iscrisse all’Università di Padova, dove la levatura modesta di gran parte del corpo insegnante, giudicata dal Favaro non all’altezza delle doti del giovane Turazza, gli consentì legami stretti di un profittevole discepolato solo con Giovanni Santini e Carlo Conti, docenti di astronomia e calcolo sublime. Dopo un periodo come assistente alla cattedra di agraria, una seconda laurea in filosofia, un’esperienza di insegnamento alle scuole superiori, nel 1841 il Turazza ebbe la cattedra di geometria descrittiva all’Università di Pavia. Negli anni precedenti il lavoro all’Osservatorio e all’Orto botanico lo avevano portato all’incontro fortuito col notaio Antonio Piazza, notabile padovano, colto e appassionato collezionista, che avrebbe segnato una svolta nella sua vita: innamoratosi della nipote Laura, la sposò nel 1839, nonostante la riluttanza della famiglia ad accettare la disparità sociale.
Nel 1842 fu chiamato all’Università di Padova come ordinario di geodesia e idrometria e presto divenne socio effettivo dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti. In quegli anni gli studi matematici all’Università di Padova si avviavano a una trasformazione radicale, con la creazione di una facoltà specifica che vide fra i suoi docenti, accanto ai più anziani Santini e Conti, nuove leve della generazione del Turazza come Serafino Raffaele Minich, Gustavo Bucchia, Giusto Bellavitis. Nel 1848 il Turazza partecipò all’insurrezione antiaustriaca come capo della guardia civica cittadina e dopo la restaurazione imperiale rimase a Padova, pur controllato e punito col blocco della sua nomina a decano della facoltà. Negli anni Cinquanta inaugurò il corso di matematica applicata, del quale sarebbe poi diventato ordinario parallelamente all’insegnamento di idraulica. Dedito anche agli studi umanistico-letterari, come vicepresidente dell’Istituto veneto diede ampio contributo alle celebrazioni del sesto centenario dantesco, simbolo dell’identità italiana, e una volta nominato presidente, riammise i soci allontanati per motivi politici.
Dimessosi da tutte le cariche col passaggio dall’Impero all’Italia unita sotto i Savoia, le riottenne presto, fino a entrare nel Comitato ministeriale per l’istruzione universitaria e gli istituti di perfezionamento. Eletto al Consiglio provinciale di Padova, mise a frutto le sue competenze occupandosi di questioni idrauliche e di infrastrutture ferrotranviarie. Ma più che nell’attività politico amministrativa, la sua carriera si svolse nell’Università, di cui fu rettore, preside di facoltà, direttore della Scuola di applicazione per gli ingegneri, che aveva voluto fondare e della quale fu allievo Antonio Favaro. Nella Scuola di applicazione ricoprì gli insegnamenti di meccanica razionale e idraulica pratica. Come studioso di matematica pura e applicata che in poco conto teneva la stampa dei suoi lavori, lasciò contributi nel campo della meccanica industriale, e soprattutto dell’idraulica, materia in cui gli furono riconosciute particolari competenze e richiesti spesso pareri e consulenze. Ascritto a numerose accademie, fu gratificato delle onorificenze più varie, fino alla nomina a senatore, trascorsi sette anni fra i membri della Regia Accademia delle Scienze.
Domenico Turazza non resse a un’influenza che lo aveva colpito nel 1892. Il suo fisico era debilitato da una patologia cardiaca insorta a seguito della perdita della moglie. Commemorandolo all’Università di Padova, Antonio Favaro sostenne che fosse «veramente morto d’amore». Lo aveva trovato un «Maestro dei più amorosi», lo scoprì poi «congiunto con vincoli dolcissimi» dopo averne sposato la figlia Giuseppina. Prima allievo, poi collega e dopo ancora genero, ne tratteggiò la figura di uomo imponente nell’altezza fisica e morale, austero, colto ma al tempo stesso lieve e amabile. «Dalla scuola – concludeva – aveva bandita quella triste severità che partorisce disamore, adoperandovi quella festevole gravità che pure incute amoroso rispetto. In lui, più che la dottrina, ch’era pur tanta, era da lodare un pregio raro e capitale nei Maestri, ch’è l’arte di ispirare amore di sé e degli studi».