1835-1910

Nato a Savigliano (CN) nel 1835, già nel periodo dei primi studi fu affascinato dall’astronomia e ne imparò le prime nozioni grazie a uno degli operai impiegati nella fornace di proprietà del padre. Nel 1850 entrò all’Università di Torino, dove studiò con Giovanni Plana, Carlo Ignazio Giulio e Luigi Federico Menabrea, uscendone quattro anni dopo ingegnere idraulico e architetto civile. Continuando a praticare da dilettante studi e osservazioni astronomiche, fallito il progetto di entrare come assistente all’osservatorio di Torino, nel 1856 iniziò a insegnare matematica nel ginnasio di Porta Nuova. Grazie all’interessamento di Carlo Ignazio Giulio presso il ministro della Pubblica Istruzione, gli fu finanziato un viaggio di studio all’estero, prima a Berlino, dove ebbe la possibilità di studiare astronomia con Karl Weierstrass, Johann Christian Poggendorff e Johann Franz Encke, poi a Pulkovo (San Pietroburgo), dove si perfezionò nelle osservazioni sotto la guida di Otto Wilhelm von Struve e Friedrich August Theodor Winnecke. Al suo rientro, nel 1860, entrò all’osservatorio astronomico di Brera come secondo astronomo. Dopo due anni, e dopo alcune scoperte assurte agli onori delle cronache, divenne, ancora giovanissimo, direttore dell’osservatorio, promozione alla quale seguirono alcuni incarichi ministeriali di insegnamento (cui poco si dedicò) e di  organizzazione degli osservatori italiani. Gli studi sulle stelle cadenti condotti nella seconda metà degli anni ’60 gli fruttarono vari premi internazionali, oltre alla medaglia d’oro della Società dei XL. Grazie all’acquisizione di telescopi sempre più potenti, dalla metà degli anni ’70 si dedicò allo studio di Marte, osservandone e descrivendone l’aspetto in una serie di Memorie pubblicate sugli «Atti della R. Accademia dei Lincei». Teorizzando una ramificazione di canali lungo la sua superficie, rivelatisi poi illusioni ottiche, fu causa al momento di un dibattito internazionale dalle sfumature variegate, che lo portò a non considerare «come intieramente assurda» l’ipotesi della presenza sul pianeta di «una razza di esseri intelligenti». Le sue osservazioni non si limitarono a Marte, ma spaziarono da Saturno a Urano, da Giove e satelliti a Venere e Mercurio, di cui studiò i periodi di rotazione. Si occupò di statistica stellare, di geofisica, geodesia, matematica, meteorologia e, non ultima, di storia dell’astronomia antica. I suoi lavori furono ripetutamente premiati con i riconoscimenti più prestigiosi, compresa la medaglia Bruce dell’Astronomical Society of the Pacific. Membro di società e accademie nazionali e internazionali, e dal 1885 del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, nel 1889 divenne senatore del Regno. Abbandonato l’osservatorio di Brera già dal 1900 a causa di gravi problemi alla vista, morì a Milano nel 1910 in seguito a un ictus. Lo Schiaparelli faceva parte dei consultori (una sorta di comitato scientifico dell’edizione nazionale delle opere di Galileo nominato dal Ministero della Pubblica Istruzione per affiancare Antonio Favaro), insieme a Valentino Cerruti e Gilberto Govi, ed evidentemente assecondò il veto che quest’ultimo aveva posto alla collaborazione di Raffaello Caverni all’iniziativa editoriale. Nel 1892, tuttavia, recensì benevolmente il primo volume della Storia del metodo sperimentale in Italia, pur con qualche decisa critica allo scarso rigore, alla parzialità spinta fino all’uso di addomesticare il contenuto dei documenti, all’atteggiamento “inquisitoriale” nei confronti dei grandi autori della rivoluzione scientifica, Galileo e Cartesio in primis. Il Caverni lo ringraziò con una lettera riconoscente, indirizzandola però a «Vincenzio Schiapparelli».

Giovanni Virginio Schiaparelli (1835-1910)